venerdì 26 aprile 2024

Sì, è un genocidio

                   

articoli e video di Andrea de Lotto, Gaetano Colonna, Giuliano Marrucci, Maria Morigi, Ghassan Abu-Sittah, Ahmed Kouta, Deborah Petruzzo, José Nivoi, Eirenefest



I 200 giorni di sterminio a Gaza riassunti in numeri

Al Jazeera sintetizza i 200 giorni di massacro israeliano a Gaza nel modo più efficace possibile: con i numeri.

Tra il 7 ottobre 2023 e il 23 aprile 2024, il regime israeliano si è macchiato di crimini indicibili contro la popolazione di Gaza, in particolare bambini e donne, con il bombardamento di ospedali e scuole, oltre ad abusi e torture certificate.

Gruppi per i diritti umani e organismi internazionali hanno descritto gli eventi strazianti che si stanno verificando nel territorio palestinese assediato come un caso da manuale di genocidio e pulizia etnica.

Anche i principali alleati internazionali di Israele – Washington, Londra, Parigi e Berlino – sono stati oggetto di una massiccia reazione pubblica per il loro continuo sostegno militare a Tel Aviv.

Secondo l’ufficio governativo di Gaza, il bilancio della campagna genocida di Israele ha già superato quota 34.150 palestinesi uccisi dal 7 ottobre, di cui oltre il 75% sono donne e bambini.

I 2,3 milioni di persone nel territorio assediato continuano a fare i conti con una catastrofica crisi umanitaria tra bombardamenti incessanti e assedio paralizzante imposto da Israele con l’appoggio degli Stati Uniti.

Di seguito sono riportate le cifre relative a 200 giorni di guerra condotta dall’occupazione israeliana a Gaza, fornite dalle autorità dell’enclave assediata e rilanciate anche da Al Jazeera:

 

  • 200 il numero di giorni di  guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 6 il numero di mesi dell’ultima guerra genocida israeliana contro Gaza
  • 34.183 il numero totale di vittime a Gaza dal 7 ottobre
  • 77.183 il numero dei feriti a Gaza dal 7 ottobre
  • 41.183 il numero totale delle persone uccise e disperse a Gaza dal 7 ottobre
  • 7.000 palestinesi ancora sotto le macerie degli edifici distrutti a Gaza
  • 3.025 massacri commessi da Israele dal 7 ottobre
  • 14.778 bambini uccisi dal 7 ottobre
  • 30 bambini morti a causa della fame e della carestia
  • 9.752   donne uccise dal 7 ottobre
  • 485 medici e paramedici uccisi dal 7 ottobre
  • 67 membri del personale della protezione civile uccisi dal 7 ottobre
  • 140 giornalisti palestinesi uccisi dal 7 ottobre
  • 72 la percentuale di bambini e donne uccisi dal 7 ottobre
  • 17.000 bambini che hanno perso uno o entrambi i genitori dal 7 ottobre
  • 11.000  feriti che necessitano di viaggiare per cure
  • 10.000   malati di cancro che corrono il rischio di morire
  • 1.090.000 persone con malattie infettive dovute allo sfollamento
  • 8.000 casi di epatite virale dovuta a sfollamento
  • 60.000 donne incinte a rischio a causa della mancanza di assistenza sanitaria
  • 350.000   malati cronici che soffrono a causa della mancanza di medicine
  • 5.000 – persone detenute arbitrariamente a Gaza dal 7 ottobre
  • 310 operatori sanitari che sono stati arrestati
  • 20 noti giornalisti detenuti arbitrariamente dal 7 ottobre
  • 2 milioni di sfollati nella Striscia di Gaza
  • 181 edifici governativi distrutti dal 7 ottobre
  • 103   scuole e università completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317   tra scuole e università parzialmente distrutte dall’occupazione
  • 239 moschee completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 317    il numero delle moschee parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 3 chiese prese di mira e distrutte dal 7 ottobre
  • 86.000 unità abitative completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 294.000 unità abitative parzialmente distrutte dal 7 ottobre
  • 75.000 tonnellate di esplosivo sganciate dall’occupazione su Gaza dal 7 ottobre
  • 32 ospedali messi fuori servizio dall’occupazione dal 7 ottobre
  • 53   centri sanitari che sono diventati non operativi dal 7 ottobre
  • 160 di istituzioni sanitarie parzialmente o completamente distrutte dal 7 ottobre
  • 126 ambulanze distrutte dall’esercito di occupazione dal 7 ottobre
  • 206 siti archeologici e del patrimonio distrutti dal 7 ottobre
  • 30 miliardi di perdite dirette preliminari a seguito della guerra genocida contro Gaza

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I paesi ricchi si nascondono sotto una cupola di ferro - Naomi Klein

 

 

L’ultima volta che sono andata a Londra è stato alla fine di settembre. Solo cinque mesi fa. Cinque mesi che sembrano cent’anni.

Cent’anni di genitori palestinesi che piangono straziati i propri figli uccisi e mutilati. Cent’anni di scuole bombardate, ospedali assaltati e moschee profanate. Cent’anni di soldati israeliani che filmano i loro crimini di guerra e li pubblicano su TikTok. Cent’anni di adolescenti addestrati al fascismo che bloccano camion carichi di provviste. Cent’anni di appelli all’annientamento di oltre due milioni di persone imprigionate e ghettizzate. Cent’anni di euforici progetti per trasformare Gaza in un grande parcheggio. In una città di mare israeliana. In un museo. In un mattatoio. In una zona cuscinetto. Cent’anni di giornalisti onesti licenziati e cent’anni di commentatori deliberatamente ottusi. Cent’anni di università che non possono pronunciare la parola Palestina e cent’anni di ong che non vogliono dire genocidio. Cent’anni di risoluzioni per un cessate il fuoco bloccate dai veti.

Dall’estrema destra al centrosinistra, siamo di fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nel sostegno attivo ai crimini contro l’umanità commessi da Israele

Tutto questo rende difficile usare parole di speranza. Quello che riesco a trovare dentro di me è la determinazione. La volontà d’impegnarmi. Impegnarmi nei movimenti per una vera uguaglianza, per la giustizia sociale, antirazzista, di genere, economica e ambientalista. Movimenti che esistono in ogni paese. Movimenti che sono cresciuti con una rapidità pazzesca in questi mesi. Non solo nelle dimensioni dei loro cortei, ma anche nella profondità delle analisi. Cresciuti nella loro propensione a stabilire connessioni e nella volontà di chiamare per nome le strutture fondanti del sistema economico e sociale.

Gli ultimi mesi forse ci hanno insegnato proprio che questi movimenti sono tutto quello che abbiamo. Nel Regno Unito, come nel mio paese, il Canada, non c’è una leadership morale se non questa che sta emergendo dal basso. Possiamo solo contare gli uni sugli altri.

Dovremmo soffermarci su questo aspetto, perché è parte della sensazione di orrore e del senso di vertigine di questo momento storico. La campagna di annientamento israeliana a Gaza non è il primo genocidio della storia moderna. Non è la prima volta che delle forze apertamente fasciste fondono un’ideologia violenta e suprematista con una determinazione senza limiti a cancellare un popolo che considerano una minaccia demografica.

La cosa eccezionale, almeno dall’epoca del colonialismo, è la coesione che questa carneficina ha suscitato tra le élite politiche del nord del mondo, e in una certa misura anche al di là di queste. Quando il fascismo fece la sua ascesa in Europa negli anni trenta aveva dei sostenitori all’interno delle nostre classi politiche, ma anche degli oppositori.

Oggi non è così. In tutti gli schieramenti, dall’estrema destra rabbiosa al centrosinistra ipocrita, siamo di fronte a potenti che abbandonano le loro differenze per unirsi nell’appoggio a questi crimini contro l’umanità. Invece di frammentare la nostra classe dirigente, questa nuova versione del fascismo l’ha compattata: così Donald Trump è d’accordo con Joe Biden, Rishi Sunak con Keir Starmer, Emmanuel Macron con Marine Le Pen, Justin Trudeau con Giorgia Meloni, e Viktor Orbán con Narendra Modi.

A questo punto dobbiamo chiederci: su cosa sono d’accordo? Cosa li unisce? Cosa vogliono proteggere quando parlano del “diritto d’Israele a difendersi”?

Che ne sarà di tutti gli altri Iron dome? Di fronte alla migrazione di massa provocata da guerre senza fine, dal riscaldamento globale e dalla povertà, cederanno anche loro?

È troppo semplice dire che sono uniti a difesa di uno stato. Ovviamente è così, ma lo sono anche a difesa di un sistema di valori condiviso. In una realtà caratterizzata dall’apartheid economico globale e dal collasso climatico sempre più rapido, hanno la stessa visione suprematista d’inviolabilità e sicurezza per pochi. È il rovescio della medaglia del loro ostinato rifiuto ad affrontare i fattori alla base di queste crisi: il capitalismo, la crescita senza limiti, il militarismo, la supremazia bianca e il patriarcato.

Come dice la storica Sherene Seikaly, siamo “nell’era della catastrofe” e “la Palestina è un paradigma”. E se la Palestina è un paradigma, Israele è una sorta di pioniere. Da decenni ormai, dopo aver abbandonato qualunque negoziato sul processo di pace, lo stato ebraico ha perseguito la sua sicurezza e la sua fame di terra attraverso un elaborato sistema di barriere, muri ipertecnologici e il suo cosiddetto scudo Iron dome, la Cupola di ferro. Gli ideatori dell’Iron dome vanno molto fieri della sua capacità d’intercettare razzi e missili e di respingere qualsiasi minaccia. Questo sistema di sorveglianza di ultima generazione è un modo di vivere per gli israeliani, ed era un modo di morire lentamente per i palestinesi già molto prima del 7 ottobre.

Ma oltre a essere queste cose, la cupola di ferro è anche un simbolo: una versione concentrata e claustrofobica dello stesso modello di sicurezza a cui aderiscono i governi del nord globale, gli stessi schierati a sostegno del genocidio commesso da Israele. È un modello nel quale i confini degli stati ricchi, diventati ricchi grazie ai crimini coloniali, sono protetti da una loro versione dell’Iron dome.

Perché, in realtà, la cupola di ferro è globale. Si snoda lungo i nostri confini fortificati, con le loro recinzioni, i loro muri letali e i loro centri di detenzione, estendendosi in un grande gulag transnazionale fatto di campi per migranti esternalizzati, prigioni galleggianti, barriere di boe chiodate nel Rio Grande, e guardacoste che osservano indifferenti le navi affondare nel Mediterraneo. La cupola arriva fin dentro i nostri paesi e le nostre città disuguali e proibitive. Si manifesta nelle forze di polizia che sgomberano i parchi dagli accampamenti di persone senza casa e reprimono i picchetti indigeni che si oppongono all’estrazione di combustibili fossili. Quelle stesse forze sono pronte a reprimere le prossime e inevitabili rivolte per la giustizia razziale. La cupola di ferro globale è anche nelle reti di sorveglianza contro i giornalisti che osano dire la verità sulle nostre guerre e i nostri sistemi di spionaggio, di cui Julian Assange è solo il simbolo più noto.

Come nel caso d’Israele, questa cupola globale si fonda sulla convinzione che i paesi debbano rispondere all’esigenza umana di diritti e bisogni primari con la violenza di stato. Ed è determinata a far sparire chi non rientra nella cerchia della protezione, rinchiudendo, respingendo, lasciando affogare. Fronteggia con la forza la resistenza degli oppressi.

L’Iron dome israeliano è estremo, perché il suo etnonazionalismo e la sua ideologia suprematista sono espliciti. Tuttavia dobbiamo avere ben chiaro che lo stato ebraico si è modellato sulle leggi, le logiche e le pratiche coloniali razziste prese in prestito dalle precedenti epoche del colonialismo (forgiato dalle nostre nazioni). A sua volta, Israele è un modello: fin dall’inizio, l’Iron dome è stato costruito in modo tale da essere esportabile. È cruciale comprendere questo aspetto, perché il 7 ottobre quel modello è franato sotto gli occhi del mondo. L’attacco di Hamas, feroce e raccapricciante, ha mandato in frantumi l’illusione di sicurezza e inviolabilità per pochi. E questo non ha terrorizzato solo l’esecutivo di Benjamin Netanyahu. Ha scosso i nostri governi nel profondo.

Se quella cupola di ferro ha ceduto, che ne sarà di tutte le altre? Di fronte alla migrazione di massa provocata da guerre senza fine, dal riscaldamento globale e da politiche economiche d’impoverimento, cederanno anche loro?

Io credo che questa paura abbia spinto i nostri governi a raggiungere la loro unità senza precedenti per affermare l’essenza del loro sistema di valori: e cioè che la ragione è sempre dalla parte del più forte. Chi ha gli armamenti più avanzati e i muri più alti controllerà miliardi di persone impoverite e senza speranza.

Questo sistema di valori, più di ogni altra cosa, aiuta a spiegare perché i governi del mondo ricco hanno abbracciato la furia vendicativa dello stato ebraico con entusiasmo incrollabile, e perché dopo mesi di massacri molti rifiutano di chiedere il minimo sindacale: un cessate il fuoco permanente. Sanno che il messaggio della campagna israeliana è rivolto anche a tutti quelli che hanno benedetto l’aggressione. Il significato è semplice: le bolle dorate di sicurezza e lusso disseminate qua e là nel mondo saranno protette a ogni costo. Se necessario, anche con un genocidio.

Nelle tante parti saccheggiate del nostro pianeta questo osceno messaggio è stato afferrato bene. A ottobre, pochi giorni dopo l’inizio dell’offensiva su Gaza, il presidente della Colombia Gustavo Petro ha dichiarato: “La barbarie del consumo basato sulla morte di altri ci porta a un aumento senza precedenti del fascismo, e dunque alla morte della democrazia e della libertà. Questa è barbarie, un 1933 globale”. Nell’attacco d’Israele, e nel sostegno che questo ha ricevuto dai governi del nord e dalle forze conservatrici del sud, Petro ha riconosciuto anche un’anticipazione di un futuro condiviso. Vale la pena di leggere per intero le sue dichiarazioni, ma qui salto direttamente alla conclusione: “Se non cambieremo il potere andremo verso la barbarie. La vita dell’umanità e soprattutto dei popoli del sud dipende dal modo in cui l’umanità sceglierà la strada per superare la crisi climatica. Gaza è solo il primo esperimento per considerarci tutti e tutte sacrificabili”.

Cos’altro dire? Forse solo questo: la guerra alla povertà è l’unica che vale la pena di combattere. O trasformeremo questa macchina della morte attraverso una ridistribuzione giusta della ricchezza, riportandola dentro limiti sostenibili dal pianeta, oppure questo incubo c’inghiottirà tutti.

Possiamo contare solo gli uni sugli altri. Possiamo fare affidamento solo sui nostri movimenti e sul potere che costruiamo insieme. Possiamo contare solo sulla nostra solidarietà, la nostra determinazione, la nostra volontà. E sull’impegno comune nei confronti del valore della vita. Con queste cose potremo costruire un mondo senza Iron dome. E conquistare la speranza.  fdl

Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina 39.

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giovedì 25 aprile 2024

Francia: Nei sotterranei dell’antiterrorismo, l’inferno dei militanti ecologisti

 

Arresti brutali, arresti di polizia senza fine… 17 persone sono state arrestate l’8 aprile nell’ambito di un’azione contro Lafarge nel 2023, con risorse antiterrorismo “sproporzionate”.

Sono le 6 del mattino, nella regione parigina, di lunedì 8 aprile, quando Guillaume viene svegliato dal suono del “colpo d’ariete”, poi dallo “schianto enorme” della porta “sfondata” di uno dei suoi vicini. Pochi minuti dopo, ha sentito un secondo tentativo di irruzione nella casa di un altro suo vicino. Dopo due errori, la squadra della Brigata di Ricerca e Intervento (BRI) è finalmente arrivata davanti al suo appartamento. Aprendo la porta, Guillaume si ritrova faccia a faccia con un fucile d’assalto puntato su di lui.

“A terra, girati”, gli gridano gli agenti incappucciati. In pochi secondi l’insegnante si ritrova a faccia in giù, con entrambe le mani ammanettate dietro la schiena. “Stanno iniziando a scatenarsi”, raconta. Pugni e calci alle costole e allo stomaco. “Forza, l’ultimo”, gli avrebbe detto un agente dei vigili prima di dargli un pugno sulle sopracciglia con un guanto da boxe. Nel referto medico redatto il giorno dopo il suo fermo di polizia e consultato da Reporterre, il medico ha notato diversi lividi sulle costole e sul viso.

“Stordito”, Guillaume ascolta le accuse: associazione a delinquere, danneggiamento durante una riunione e rapimento durante un’azione contro una fabbrica di calcestruzzo Lafarge vicino a Rouen, il 10 dicembre. I militanti erano entrati nel sito Lafarge e svuotato sacchi di pigmenti coloranti per cemento e barili di sabbia.

Guillaume osserva quindi la perquisizione del suo appartamento. Il suo telefono è sequestrato e vengono scattate diverse foto. Adesivi, libri, appunti, un casco da skate, una sciarpa. “Ogni volta che trovavano qualcosa, chiedevano se si trattava di materiale di protesta”, racconta.

Profilo tipico del “militante ecologista radicale”

Allo stesso tempo, vicino a Rouen, gli agenti di polizia della Brigata Rapida d’Intervento (BRI) hanno improvvisamente fatto irruzione in una casa per errore, a causa di un cambio di indirizzo. La radio France Bleu fa eco al “trauma” della famiglia che ne ha pagato il prezzo. Una squadra di intervento della BRI finisce per arrivare a casa di Mathilde [*]. “Agenti armati sono entrati nella casa dove si trovavano i miei due figli di 4 e 8 anni. Mi sentivo come se fossi tenuta in ostaggio”.

Anche in questo caso i suoi dispositivi elettronici sono messi sotto sigillo e gli agenti sono interessati a tutti gli elementi che possano “corroborare il profilo dell’ecologista radicale che immaginano”. Un poster sull’affare Tarnac (il sabotaggio delle linee del TGV nel 2008), un altro sulla zad Notre-Dame-des-Landes, libri come Comment tout peut s’effondrer di Pablo Servigne e Raphaël Stevens, e cnche On ne dissout pas un soulèvement.

Caricati in un’auto, bendati, otto dei diciassette arrestati sono stati condotti a tutta velocità nei locali della sottodirezione antiterrorismo (SDAT), a Levallois-Perret (Hauts-de-Seine). Diretti al quarto seminterrato. Dopo la perquisizione, vengono posti dietro un vetro trasparente per essere “tapissage” policier (messi uno accanto all’altro con un cartello numerato per l’identificazione da parte di sbirri o eventuali testimoni). “Ci viene dato un numero e guardiamo avanti, come in una serie americana”, spiega Mathilde. Sono poi messi nelle celle illuminate dai neon, videosorvegliate, in completo isolamento.

“Avevo chiaramente l’impressione di essere un terrorista”, ricorda Guillaume, che non avrebbe rivisto la luce fino alla mattina di giovedì 11 aprile, dopo 74 ore di fermo di polizia.

Dalla sua cella non sente gli slogan scanditi da alcuni compagni davanti alla sede dello SDAT: “Terrorista Lafarge, liberate i nostri compagni!” »

Le giornate sono scandite da perquisizioni, pasti e colloqui con l’ufficiale di polizia giudiziaria. Il primo è dedicato al profilo personale e politico delle persone detenute in custodia di polizia. Vengono interrogati alla rinfusa sulla loro conoscenza delle “teorie del disarmo o sul clima”, “ d’Extinction Rebellion, Youth for Climate ou “Les Soulèvements de la Terre”, sulla loro opinione riguardo all’azione intrapresa contro la fabbrica Lafarge a Bouc-Bel -Ari nel 2022 (dove sono stati effettuati diversi sabotaggi) o anche la politica del governo in materia di ecologia. Le seguenti udienze sono dedicate al loro presunto coinvolgimento nell’azione del 10 dicembre, nel sito Lafarge-Holcim a Val-de-Reuil, vicino a Rouen, nonché agli elementi raccolti durante i quattro mesi di indagini e perquisizioni. “Avevano una mia foto il giorno di una manifestazione contro lo scioglimento delle rivolte terrestri”, riferisce Mathilde.

“Far paura a un’intera generazione di ambientalisti”

Giovedì 11 aprile, nove degli arrestati hanno ricevuto una convocazione al tribunale penale di Évreux per il 27 giugno. Fino ad allora cinque imputati sono stati posti sotto controllo giudiziario con l’obbligo di presentarsi alla stazione di polizia ogni due settimane e, per alcuni di loro, il divieto di andare in giro nella provincia e di prendere contatti. “L’uso di mezzi antiterroristici è un modo per segnare i nostri corpi e le nostre menti, per spaventare un’intera generazione di ecologisti”, riassume Guillaume, che intende sporgere denuncia all’Ispettorato generale della polizia nazionale (IGPN) e contattare il difensore dei diritti. Mathilde è una degli otto imputati rilasciati senza ulteriori provvedimenti. Dopo 60 ore “estenuanti e angoscianti” trascorse nel seminterrato della SDAT, è stata rilasciata la sera di mercoledì 10 aprile. “Mi hanno rilasciato, ammanettata dietro la schiena e bendata, in una strada di Parigi, nel cuore della notte, senza telefono. Avevo una borsa con le mie mutandine da cui hanno prelevato il DNA”, racconta. L’uso di questi mezzi “sproporzionati” mirava a “dissuadere e intimidire” i militanti, secondo l’avvocato di Mathilde, Aïnoha Pascual. “Penso che il vero motivo sia che il Ministero dell’Interno ne fa una questione personale e invia i suoi servizi per lanciare un messaggio: tutte le azioni in difesa dell’ecologia riceveranno in risposta questo sistema di polizia e giudiziario. » Agli occhi degli attivisti interrogati il messaggio è senza dubbio rivolto anche agli industriali: “Inquinate, siete protetti”. “È assurdo”, ha reagito uno di loro. Gli agenti antiterrorismo si stanno mobilitando su questo caso che riguarda un’azienda, Lafarge, sospettata di aver sostenuto organizzazioni terroristiche. » (vedi qui https://www.ilsole24ore.com/art/usa-azienda-francese-lafarge-patteggia-778-milioni-pagamenti-isis-siria-AEoStg9B)

 

fonte: https://reporterre.net/Dans-les-sous-sols-de-l-antiterrorisme-l-enfer-de-militants-ecologistes

traduzione a cura di Salvatore Palidda

 

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mercoledì 24 aprile 2024

Due errori fatti e due da non fare: lettera aperta ad amici pacifisti e nonviolenti - Peppe Sini

Carissime e carissimi,

il primo errore: le grandi associazioni e reti pacifiste e nonviolente italiane non hanno ritenuto di farsi promotrici di una lista per la pace alle elezioni europee. A me sembra invece che a fronte dell’evidentissimo cedimento alla guerra, al riarmo e al militarismo da parte dell’Unione Europea (e della generalità delle forze politiche ivi rappresentate), una lista per la pace era ed è una necessità.

Il secondo errore: poichè per fortuna una lista pacifista, denominata “Pace Terra Dignità”, si è comunque costituita per iniziativa precipua di Raniero La Valle, e merito gliene sia reso, mi è sembrato un errore che in essa non si siano candidate che pochissime personalità universalmente riconosciute come eminentemente rappresentative dei movimenti pacifisti e nonviolenti, con la conseguenza che forse la maggior parte dei candidati di questa benemerita lista non sono adeguatamente rappresentativi della vasta e complessa e preziosa storia del pensiero e dell’azione di pace e nonviolenza nel nostro paese e non hanno quindi nei confronti dell’elettorato la capacità persuasiva che avrebbero avuto le persone più riconoscibili e riconosciute delle esperienze di solidarietà e di liberazione ovvero delle lotte nonviolente che dalla Resistenza antifascista ad oggi si sono svolte nel nostro paese per la pace, i diritti umani di tutti gli esseri umani e la difesa della biosfera.

Certo, nella lista sono candidate persone come Raniero La Valle, che già da solo rappresenta il meglio della cultura democratica e dell’impegno per la pace in Italia, e con lui alcune altre persone (come Enrico Peyretti, come Roberto Mancini…) che della pace e della nonviolenza sono autorevoli testimoni da oltre mezzo secolo; ma era possibile, ed opportuno, che fossero molte di più. Dispiace, ma così è andata.

Ci sono ora altri due errori che sarebbe bene non fare, essendo ancora possibile evitarli.

La lista “Pace Terra Dignità”, che è l’unica che propone come priorità assoluta per il Parlamento europeo una politica di pace, sta raccogliendo le firme per potersi presentare, e il tempo è poco: una manciata di giorni. Ebbene, se non le associazioni e le reti pacifiste e nonviolente, almeno le singole persone più autorevoli e rappresentative di esse prendano pubblicamente la parola per invitare a firmare per la presentazione della lista “Pace Terra Dignità”, così da contribuire a raggiungere il numero di firme sufficienti a permettere all’unica lista pacifista di presentarsi a queste decisive elezioni europee.

Non si commetta l’errore di disinteressarsene, poichè è pur palese che questo errore andrebbe a beneficio del superpartito della guerra e a danno dell’umanità intera.

Quando poi le firme saranno state raccolte, e si rivelassero sufficienti – come spero vivamente -, allora credo che le figure più prestigiose delle associazioni e delle reti pacifiste e nonviolente dovrebbero aiutare almeno le candidate ed i candidati più consapevolmente e dimostratamente pacifisti e nonviolenti di questa unica lista pacifista partecipando alla loro campagna elettorale: partecipando nelle forme che riterranno opportune, ma partecipando. Per poter far entrare nel parlamento europeo la voce della pace, senza ambiguità o subalternità, c’è bisogno dell’aiuto di tutte le persone di volontà buona.

Una cosa credo infatti sia a tutti evidente: che con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni (e ve ne sono) solo la lista “Pace Terra Dignità” propone la pace come primo dovere, mentre in Europa e nel mondo la guerra sta facendo scempio di innumerevoli esseri umani e minaccia di distruzione l’umanità intera.

Voterò quindi per questa lista e darò la mia preferenza – se a qualcuno dei venticinque lettori di questa lettera può interessare – ad Alì Rashid, compagno di tante lotte nonviolente, autorevole voce del popolo palestinese, da sempre impegnato per la liberazione e la convivenza di tutti i popoli, per i diritti umani di tutti gli esseri umani, per la democrazia che salva tutte le vite, per la pace ed il bene comune dell’umanità intera e dell’intero mondo vivente.

Perchè quello che è decisivo è che “Pace Terra Dignità” è l’unica lista in Italia che propone la pace come programma politico concreto e fondamentale per l’Europa e per l’umanità. Nessun’altra lista lo fa. Per persone come noi, carissime e carissimi, conterà pur qualcosa.

Un abbraccio dal vostro

Peppe Sini, responsabile del “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo

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DISCORSO DEL DR. GHASSAN ABU SITTAH ALLA SUA NOMINA DI RECTOR DELL’UNIVERSITA’ DI GLASGOW

 

L’11 aprile il dottor Ghassan Abu-Sittah, chirurgo britannico-palestinese di rientro da Gaza, è stato nominato Rector dell’Università di Glasgow dopo la sua elezione schiacciante con l’80% dei voti.  Di seguito è riportata una trascrizione del suo discorso di insediamento.


“Ogni generazione deve scoprire la sua missione, compierla o tradirla, in relativa opacità”.  Frantz Fanon, I dannati della terra


“Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno deciso di votare in memoria dei 52.000 palestinesi uccisi. In memoria dei 14.000 bambini assassinati. Hanno votato in solidarietà con i 17.000 bambini palestinesi rimasti orfani, i 70.000 feriti – di cui il 50% bambini – e i 4-5.000 bambini a cui sono stati amputati gli arti.

Hanno votato per solidarizzare con gli studenti e gli insegnanti di 360 scuole distrutte e 12 università completamente rase al suolo. Hanno solidarizzato con la famiglia e la memoria di Dima Alhaj, un’ex alunna dell’Università di Glasgow uccisa con il suo bambino e con tutta la sua famiglia.

All’inizio del XX secolo, Lenin predisse che il vero cambiamento rivoluzionario nell’Europa occidentale dipendeva dal suo stretto contatto con i movimenti di liberazione contro l’imperialismo e nelle colonie di schiavi. Gli studenti dell’Università di Glasgow hanno capito cosa abbiamo da perdere quando permettiamo alla nostra politica di diventare disumana. Capiscono anche che ciò che è importante e diverso di Gaza è che è il laboratorio in cui il capitale globale sta esaminando come gestire le popolazioni in eccesso.

Si sono schierati accanto a Gaza e hanno solidarizzato con il suo popolo perché hanno capito che le armi che Benjamin Netanyahu usa oggi sono le armi che Narendra Modi userà domani. I quadricotteri e i droni equipaggiati con fucili da cecchino – usati in modo talmente subdolo ed efficiente a Gaza che una notte all’ospedale Al-Ahli abbiamo ricevuto più di 30 civili feriti colpiti fuori dal nostro ospedale da queste invenzioni – usati oggi a Gaza saranno usati domani a Mumbai, a Nairobi e a San Paolo. Alla fine, come il software di riconoscimento facciale sviluppato dagli israeliani, arriveranno a Easterhouse e Springburn.

Quindi, in realtà, per chi hanno votato questi studenti? Il mio nome è Ghassan Solieman Hussain Dahashan Saqer Dahashan Ahmed Mahmoud Abu-Sittah e, ad eccezione di me, mio padre e tutti i miei antenati sono nati in Palestina, una terra che è stata ceduta da uno dei precedenti rector dell’Università di Glasgow. Tre decenni prima che la sua dichiarazione di quarantasei parole annunciasse il sostegno del governo britannico all’insediamento della Palestina da parte dei coloni, Arthur Balfour fu nominato Lord Rector dell’Università di Glasgow. “Un’indagine sul mondo… ci mostra un vasto numero di comunità selvagge, apparentemente in uno stadio di cultura non profondamente diverso da quello che prevaleva tra l’uomo preistorico”, disse Balfour durante il suo discorso rettorale nel 1891. Sedici anni dopo, questo antisemita ideò l’Aliens Act del 1905 per impedire agli ebrei in fuga dai pogrom dell’Europa orientale di mettersi in salvo nel Regno Unito.

Nel 1920, mio nonno Sheikh Hussain costruì con i suoi soldi una scuola nel piccolo villaggio in cui viveva la mia famiglia. Lì gettò le basi per una relazione che ha reso l’istruzione centrale nella vita della mia famiglia. Il 15 maggio 1948, le forze dell’Haganah fecero pulizia etnica in quel villaggio e spinsero la mia famiglia, che aveva vissuto su quella terra per generazioni, in un campo profughi a Khan Younis che ora si trova in rovina nella Striscia di Gaza. Le memorie dell’ufficiale dell’Haganah che aveva invaso la casa di mio nonno furono trovate da mio zio. In queste memorie, l’ufficiale nota con incredulità come la casa fosse piena di libri e avesse un certificato di laurea in legge dell’Università del Cairo, appartenente a mio nonno.

L’anno dopo la Nakba, mio padre si laureò in medicina all’Università del Cairo e tornò a Gaza per lavorare nell’UNRWA nelle sue cliniche appena formate. Ma come molti della sua generazione, emigrò nel Golfo per aiutare a costruire il sistema sanitario in quei paesi. Nel 1963 si trasferì a Glasgow per proseguire la sua formazione post-laurea in pediatria e si innamorò della città e della sua gente.

E fu così che nel 1988 venni a studiare medicina all’Università di Glasgow, e qui scoprii cosa può fare la medicina, come una carriera in medicina ti pone di fronte al freddo volto della vita delle persone, e come, se sei dotato delle giuste lenti politiche, sociologiche ed economiche, puoi capire come la vita delle persone viene modellata, e molte volte contorta, da forze politiche al di fuori del loro controllo.

Ed è stato a Glasgow che ho visto per la prima volta il significato della solidarietà internazionale. Glasgow in quel periodo era piena di gruppi che stavano organizzando solidarietà con El Salvador, Nicaragua e Palestina. Il consiglio comunale di Glasgow è stato uno dei primi a gemellarsi con le città della Cisgiordania e l’Università di Glasgow ha istituito la sua prima borsa di studio per le vittime del massacro di Sabra e Shatila. È stato proprio durante i miei anni a Glasgow che è iniziato il mio viaggio come chirurgo di guerra, prima da studente quando sono andato alla prima guerra americana in Iraq nel 1991; poi con Mike Holmes nel Libano del Sud nel 1993; poi con mia moglie a Gaza durante la Seconda Intifada; poi alle guerre condotte dagli israeliani a Gaza nel 2009, 2012, 2014 e 2021; alla guerra di Mosul nel nord dell’Iraq, a Damasco durante la guerra siriana e alla guerra in Yemen. Ma è stato solo il 9 ottobre che sono arrivato a Gaza e ho visto svolgersi il genocidio.

Tutto quello che sapevo sulle guerre era paragonabile a niente di quello che vedevo. Era la differenza tra alluvioni e uno tsunami. Per 43 giorni ho visto le macchine di morte fare a pezzi le vite e i corpi dei palestinesi nella Striscia di Gaza, metà dei quali erano bambini. Dopo essere uscito, gli studenti dell’Università di Glasgow mi hanno contattato per candidarmi alle elezioni come Rector. Poco dopo, uno dei selvaggi di Balfour ha vinto le elezioni.

Che cosa abbiamo imparato dal genocidio e sul genocidio negli ultimi 6 mesi? Abbiamo imparato che lo scolasticidio, l’eliminazione di intere istituzioni educative, sia di infrastrutture che di risorse umane, è una componente fondamentale della cancellazione genocida di un popolo. 12 università completamente rase al suolo. 400 scuole. 6.000 studenti uccisi. 230 insegnanti uccisi. Uccisi 100 professori e presidi e due rettori di università.

Abbiamo anche imparato, e questo è qualcosa che ho scoperto quando ho lasciato Gaza, che il progetto genocida è come un iceberg di cui Israele è solo la punta. Il resto dell’iceberg è costituito da un asse del genocidio. Questo asse del genocidio è costituito dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Germania, dall’Australia, dal Canada e dalla Francia. paesi che hanno sostenuto Israele con le armi – e continuano a sostenere il genocidio con le armi – e hanno mantenuto il sostegno politico al progetto genocida in modo che continuasse. Non dobbiamo lasciarci ingannare dai tentativi degli Stati Uniti di umanitarizzare il genocidio: uccidendo persone mentre lanciano aiuti alimentari con il paracadute.

Ho anche scoperto che parte dell’iceberg del genocidio sono i facilitatori del genocidio. Piccole persone, uomini e donne, in ogni aspetto della vita, in ogni istituzione. Questi facilitatori di genocidio sono di tre tipi.

1.      I primi sono quelli la cui razzializzazione e la totale alterità dei palestinesi li ha resi incapaci di provare qualcosa per i 14.000 bambini che sono stati uccisi e per i quali i bambini palestinesi rimangono non degni di compianto. Se Israele avesse ucciso 14.000 cuccioli o gattini, sarebbero stati completamente distrutti dalla barbarie di Israele.

2.      Il secondo gruppo è costituito da coloro che, secondo Hannah Arendt ne “La banalità del male”, “non avevano alcun motivo, se non la straordinaria diligenza nel prendersi cura del proprio avanzamento personale”.

3.      I terzi sono gli apatici. Come diceva Arendt, “Il male prospera nell’apatia e non può esistere senza di essa”.

Nell’aprile del 1915, un anno dopo l’inizio della Prima guerra mondiale, Rosa Luxemburg scrisse della società borghese tedesca. “Violati, disonorati, guadati nel sangue… La bestia famelica, il sabba delle streghe dell’anarchia, una piaga per la cultura e l’umanità”. Quelli di noi che hanno visto, annusato e sentito ciò che le armi da guerra fanno al corpo di un bambino, quelli di noi che hanno amputato le membra irrecuperabili di bambini feriti non possono mai avere altro che il massimo disprezzo per tutti coloro che sono coinvolti nella fabbricazione, nella progettazione e nella vendita di questi strumenti di brutalità. Lo scopo della produzione di armi è quello di distruggere la vita e devastare la natura. Nell’industria degli armamenti, i profitti aumentano non solo a causa delle risorse catturate durante o attraverso la guerra, ma anche attraverso il processo di distruzione di tutta la vita, sia umana che ambientale. L’idea che ci sia la pace o un mondo incontaminato mentre il capitale cresce con la guerra è ridicola. Né il commercio di armi né il commercio di combustibili fossili hanno posto all’Università.

Allora, qual è il nostro piano, di questo “selvaggio” e dei suoi complici?

Faremo una campagna per il disinvestimento dalla produzione di armi e dall’industria dei combustibili fossili in questa Università, sia per ridurre i rischi dell’Università a seguito della sentenza della Corte Internazionale di Giustizia che questa è plausibilmente una guerra genocida, sia per l’attuale causa intentata contro la Germania dal Nicaragua per complicità nel genocidio.

Il denaro del sangue genocida ricavato come profitto da queste azioni durante la guerra sarà utilizzato per creare un fondo per aiutare a ricostruire le istituzioni accademiche palestinesi. Questo fondo sarà intestato a Dima Alhaj e in memoria di una vita stroncata da questo genocidio.

Formeremo una coalizione di gruppi e sindacati studenteschi e della società civile per trasformare l’Università di Glasgow in un campus libero dalla violenza di genere.

Ci batteremo per trovare soluzioni concrete per porre fine alla povertà studentesca all’Università di Glasgow e per fornire alloggi a prezzi accessibili a tutti gli studenti.

Faremo una campagna per il boicottaggio di tutte le istituzioni accademiche israeliane che sono passate dall’essere complici dell’apartheid e della negazione dell’istruzione ai palestinesi al genocidio e alla negazione della vita. Ci batteremo per una nuova definizione di antisemitismo che non confonda l’antisionismo e il colonialismo genocida anti-israeliano con l’antisemitismo.

Combatteremo con tutte le comunità altre e razzializzate, compresa la comunità ebraica, la comunità rom, i musulmani, i neri e tutti i gruppi razzializzati, contro il nemico comune di un fascismo di destra in ascesa, ora assolto dalle sue radici antisemite da un governo israeliano in cambio del suo sostegno all’eliminazione del popolo palestinese.

Solo questa settimana, proprio questa settimana, abbiamo visto come un’istituzione finanziata dal governo tedesco ha censurato un’intellettuale e filosofa ebrea, Nancy Fraser, a causa del suo sostegno al popolo palestinese. Più di un anno fa, abbiamo visto il Partito Laburista sospendere Moshé Machover, un attivista antisionista ebreo, per antisemitismo.

Durante il volo di andata ho avuto la fortuna di leggere “Siamo liberi di cambiare il mondo” di Lyndsey Stonebridge. Cito da questo libro: “È quando l’esperienza dell’impotenza è più acuta, quando la storia sembra più cupa, che la determinazione a pensare come un essere umano, in modo creativo, coraggioso e complicato conta di più”. 90 anni fa, nella sua “Canzone di solidarietà”, Bertolt Brecht si chiedeva: “Di chi è domani domani? E di chi è il mondo?”

Bene, la mia risposta a lui, a voi e agli studenti dell’Università di Glasgow: è il vostro mondo per cui lottare. È il tuo domani da costruire. Per noi, tutti noi, parte della nostra resistenza alla cancellazione del genocidio è parlare del domani a Gaza, pianificare la guarigione delle ferite di Gaza domani. Saremo proprietari di domani. Domani sarà un giorno palestinese.

Nel 1984, quando l’Università di Glasgow nominò Winnie Mandela suo Rector nei giorni più bui del governo di P. W. Botha sotto un brutale regime di apartheid, sostenuto da Margaret Thatcher e Ronald Reagan, nessuno avrebbe potuto immaginare che in 40 anni uomini e donne sudafricani avrebbero potuto trovarsi di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia a difendere il diritto del popolo palestinese alla vita come cittadini liberi di una nazione libera.

Uno degli scopi di questo genocidio è quello di affogarci nel nostro stesso dolore. Da un punto di vista personale, voglio mantenere lo spazio in modo che io e la mia famiglia possiamo piangere per i nostri cari. Lo dedico alla memoria del nostro amato Abdelminim ucciso a 74 anni il giorno della sua nascita. Lo dedico alla memoria del mio collega, il dottor Midhat Saidam, che era uscito per mezz’ora per portare sua sorella a casa loro in modo che potesse essere al sicuro con i suoi figli e non è più tornato. Lo dedico al mio amico e collega, il dottor Ahmad Makadmeh, che è stato giustiziato dall’esercito israeliano nell’ospedale Shifa poco più di 10 giorni fa con sua moglie. Lo dedico al sempre sorridente dottor Haitham Abu-Hani, capo del Pronto Soccorso dell’ospedale Shifa, che mi ha sempre accolto con un sorriso e una pacca sulla spalla. Ma soprattutto lo dedichiamo alla nostra terra. Nelle parole dell’onnipresente Mahmoud Darwish,

“Alla nostra terra, ed è un premio di guerra,

la libertà di morire per il desiderio e l’incendio

e la nostra terra, nella sua notte insanguinata,

è un gioiello che brilla per il lontano sul lontano

e illumina ciò che è al di fuori di esso…

Quanto a noi, dentro,

soffochiamo di più!”

E così voglio concludere con la speranza. Per dirla con le parole dell’immortale Bobby Sands, “La nostra vendetta saranno le risa dei nostri figli”.”

HASTA LA VICTORIA SIEMPRE!

 

Traduzione di Angelo Stefanini

 

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